Scritto il 01 Gennaio 2014
Il significato, il concetto di male spesso inteso genericamente nella sua opposizione lessicale al bene, ha un significato estremamente complesso. Da sempre oggetto di riflessione di pensatori e intellettuali può diventare un punto di arrivo di un personale percorso di analisi e conoscenza.
Ed è proprio attraverso un sofferto percorso di conoscenza che Hannah Arendt (1906-1975), filosofa, politologa di origine ebrea tedesca successivamente trasferitasi negli Stati Uniti, giunse a pubblicare il libro “La banalità del male – Eichmann a Gerusalemme”.
Nel 1961, come corrispondente del settimanale The New Yorker, la Arendt fu inviata ad assistere al processo Eichmann, l’ex SS a cui era stata affidata l’organizzazione dello sterminio ebraico e che i servizi segreti israeliani avevano catturato e rapito in un misero sobborgo di Buenos Aires, dove si era rifugiato con la famiglia.
Arendt aveva definito il caso Eichmann la macchina che aveva portato alla luce la profonda “banalità del male” dove “banalità” significa “senza radici”. Hannah Arendt afferma: "la mia opinione è che il male non è mai “radicale”, ma soltanto estremo, e che non possegga né la profondità né una dimensione demoniaca. Esso può invadere e devastare tutto il mondo perché cresce in superficie come un fungo. Esso sfida […] il pensiero, perché il pensiero cerca di raggiungere la profondità, andare a radici, e nel momento in cui cerca il male, è frustrato perché non trova nulla. Questa è la sua "banalità" [...] solo il bene ha profondità e può essere integrale."
Lo spaventoso era che l’imputato non si rivelava la belva umana che l’accusa voleva dimostrare e che il mondo si attendeva di vedere. Per assurdo che fosse, il processo mostrava un Eichmann che aveva sempre concepito la sua attività come un “lavoro”, con tutte le caratteristiche del lavoro d’ufficio, meticoloso ed ordinato, che doveva esser fatto al meglio e che era moralmente neutrale. Eichmann non capiva, era incapace di pensare, si riteneva un uomo corretto e un buon cittadino, un funzionario scrupoloso e onestissimo. Con lo svelare la “normalità” di Eichmann, per questo ancora più terribile, Arendt metteva in discussione l’idea rassicurante della eccezionalità della mostruosità del male.
Si cominciò ad accusarla di essere stata iniqua nei confronti dei capi delle varie comunità ebraiche che avevano dovuto collaborare con le autorità naziste e a cui sembrava imputare la colpa di una mancata resistenza al massacro; si finì col dare a tutto il libro il significato di un gesto di inimicizia verso il nuovo Stato degli ebrei, le sue istituzioni, la sua giustizia.
Ma nell’esprimere le sue osservazioni, libere, lucide, oggettive, Hannah Arendt rivelò tutta la sua genialità, l’indipendenza del suo pensiero. Oltre che dal suo popolo fu contestata e contrastata violentemente dagli intellettuali del mondo intero e persino dai suoi stessi cari amici. Fu attaccata anche come donna, nella sua sensibilità e femminilità, tacciata di arroganza e freddezza, accusata di non essere capace di sentimenti.
Al contrario, leggendo attentamente il suo libro, si ha la sensazione che lei comprenda qualcosa che altri potevano capire ma non hanno compreso. Hannah Arendt ha la grande capacità di vedere e di dare un senso a ciò che vede rivelando sempre qualcosa sulla condizione umana.
Ne “La banalità del male”, fonte continua di riflessione anche a distanza di tanti anni, è più che mai viva la sua tesi: “per prevenire il male c’è bisogno dell’esercizio del pensare”.
Arendt indica il pericolo di agire con “assenza di pensiero” di non considerare le conseguenze delle proprie azioni, di non riuscire a “mettersi nei panni degli altri”. Il male va ricondotto a una attività incessante e ripetitiva che non permette di fermarsi e, dunque, di pensare. Così è impossibile raggiungere un giudizio autonomo.
Queste sue affermazioni sono oggi supportate da decennali studi di psicologia sociale secondo i quali è molto sottile la linea di demarcazione tra Bene e Male.
In un contesto insolito ed estremo chiunque può divenire vulnerabile al potere di forze negative e tenere condotte inimmaginabili sulla base delle abituali caratteristiche di personalità.
E’ una prospettiva difficile da accettare ma è sostenuta da dati di numerose ricerche scientifiche.
Ciò non deve però tradursi in una giustificazione per chi compie il “male”. Come sostiene Bocchiaro nel suo libro “Psicologia del male” è sicuramente vero che le dinamiche situazionali possono orientare e predisporre al male (Bocchiaro: “La malvagità non è appannaggio esclusivo di individui deviati o pazzi, chiunque può infierire contro un altro essere umano, perché questi erano gli ordini o semplicemente perché ne ha avuto l’occasione.”) , ma rimane il fatto che una condotta riprovevole è stata messa in atto da qualcuno e che condannarla è doveroso. Nella spiegazione non si nasconde nessun intento assolutorio, ma solo l’esigenza di comprendere quanto succede. E’ quanto afferma instancabilmente nel suo libro la Arendt “Io devo comprendere”.
Oggi gli studi ci permettono di sapere che siamo tutti esposti al potere della situazione e ciò dovrebbe renderci più vigili nei confronti delle varie forze psicosociali che nostro malgrado ci investono e accrescere, come conseguenza, le probabilità di contrastarle.
Un ultimo interrogativo che “La banalità del male”, quasi inesauribile nelle suggestioni e riflessioni che può dare, solleva nel lettore è capire cosa spinge una minoranza di persone a disobbedire agli ordini ingiusti di una figura autoritaria.
E’ “la predisposizione a vivere con se stessi, cioè a impegnarsi in quel dialogo silente con se stessi che, sin dai tempi di Socrate e Platone, siamo soliti chiamare pensiero.” (Arendt)
Agire con assenza di pensiero è il fatto tragico dei nostri tempi.
La Arendt anticipa ciò che oggi, autori di rilevanza nell’universo psicanalitico, chiamano “pensiero perverso”, un pensiero creativamente nullo e socialmente pericoloso che sovverte la verità e la stessa logica.
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