OCCUPAZIONI (senza K)

Scritto il 10 Novembre 2012

OKKUPAZIONE

Né rossi né neri, solo liberi pensieri gridavano nel 2008 gli studenti del movimento che non voleva essere paragonato al '68 né, tanto meno, al '77.

Sia chi voleva far lezione regolarmente, sia chi protestava in piazza stava cercando di rattoppare un sistema fondamentalmente errato e di concludere un ciclo di studi che li avrebbe condotti (e questo sembrava non adombrare i loro pensieri) alla disoccupazione o al precariato.

Li abbiamo criticati perché ci sembravano persone che cercavano solo di risolvere il loro stringato problema senza riflettere criticamente su come la nostra società si presentava.

Avevamo torto, anche se forse nel 2008 si poteva ancora tentare di essere idealisti.

Oggi non più. Oggi chi occupa una scuola deve pensare al suo dannato orticello perché questi ragazzi e ragazze non possono permettersi il lusso di avere un pensiero essenziale, di poggiare le loro azioni su di un’ideologia. Sentono di non avere più tempo per credere che il mondo si debba reggere sui valori della solidarietà, del diritto -per tutti- allo studio, al lavoro, alla salute, alla dignità umana e per organizzare una lotta unitaria (studenti, precari, pensionati, operai e impiegati al limite del sostentamento) capace di recuperare un mondo attraversato da un fascismo (uso questo vocabolo perché racchiude un certo modo di intendere la vita) trasversale. 

Tempo scaduto. E il tempo glielo abbiamo consumato noi credendo negli ultimi venti anni di volere ciò che i governanti ritenevano di volta in volta più opportuno in una condivisione di umori, preferenze, stili di vita tra chi comanda e chi elegge. Siamo stati incapaci di resistere alle pressioni soft e colloidali del potere mediatico, di contrapporre un pensiero critico alla fabbrica delle opinioni. Oggi, vittime dell’accidia e della delusione, gettiamo le armi davanti ad un totalitarismo che non si affida più alle ideologie forti, ma alle gelatinose ideologie deboli, promosse dal potere della comunicazione.

Il tempo glielo abbiamo rubato noi che dopo aver protestato, parlato e straparlato ci siamo accaparrati il posto tranquillo che speravamo per sempre.

Perché nel ’68 e forse nel ‘77, mentre gridavamo slogan nelle piazze, partecipavamo alle assemblee, ci scontravamo nelle sezioni, consciamente o inconsciamente sapevamo che uno straccio di lavoro l’avremmo comunque trovato.

Loro no, non possono permettersi il lusso di concepire un’attività articolata su cui costruire il futuro.

Vanno avanti a tentoni, devono camminare step by step: devono cercare di ottenere qualcosa oggi, subito, perché non sanno cosa avranno domani.

Uno su mille ce la fa, sempre il figlio di papà, anche questo gridavano nel 2008.

Infatti, non possono fidarsi della meritocrazia, l’ultimo abusato trucco della comunicazione.

Il merito riflette semplicemente l’arbitrarietà morale della sorte naturale e sociale: nessuno ha mai deciso la sua sorte genetica, il sesso, la razza o la classe in cui gli è accaduto di nascere. Questa è la società in cui una minoranza di privilegiati si avvale di criteri di selezione tendenziosi e settari per impedire l’ascesa sociale di quanti sono sfavoriti dal fatto di appartenere a classi inferiori.

Allora ritorniamo anche noi, vecchi cinici e disincantati, a fare la nostra parte, riprendiamo certi libri in mano, riflettiamo sui loro contenuti e cerchiamo di trasmettere messaggi chiari e forti a questi ragazzi che forse non si rendono conto che saranno sempre più “servi della gleba”, bassa manovalanza, carne da macello per mantenere le rendite dei loro aguzzini. Padroni che hanno bisogno di una forza lavoro disposta ad accettare il precariato e ad assumere in prima persona una quota dei rischi imprenditoriali; una forza lavoro che non perda tempo a porsi domande “profonde” ma sappia scivolare agilmente sulla superficie di conoscenza e informazioni assemblate a colpi di clik, operando in multitasking e reagendo fulmineamente agli imput del momento; lavoratori con una disponibilità illimitata che nasce dall’identificazione di lavoro e piacere.

E se non saranno questi ragazzi, la futura generazione, che avrà una nuova e più matura visione del mondo, non ci perdonerà i danni che le stiamo ancora arrecando.

 


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